La Dialettica Del Supereroe

Chissà come ne parli tu, come dialoghi nei tuoi pensieri, con quale dialettica ti avvicini alla rappresentazione del vero. Vorresti, ti piacerebbe, ti farebbe comodo o forse no. Oh no! Davvero meglio di no. Non puoi accettare come paradigma della realtà questa rappresentazione che ti descrive incapace e fuori luogo e anemico e bulimico e passivo e…e…e… Sai, è che se non piovesse mai la realtà sarebbe deserto e tu con che scusa ti travestiresti? E io con che scusa direi di sognare di fare lo scrittore? Nelle stanze e in circostanze complesse, ci mascheriamo, ma non per nasconderci. Eh no. Piuttosto per inghiottire coraggio. Pensateci, pensatevi. La realtà, di come è superiore al tuo volere, di come ti trasforma e dell’equilibrio alla deriva, fino a quando deciderai di esserci, fino a quando non ci sarà più nessuna remora, fino a quando il tuo essere sarà simile, se non uguale a tutto ciò che rappresenti con quella maschera che indossi, sotto la quale immagini e sudi, sotto la quale nulla è impossibile e dalla quale affronti la paura, che non svanisce mai, ma che da quella prospettiva, l’affronto risulta essere talmente ingenuo, da poterlo percepire. E’ debole visto da qua sotto, è insignificante ora che non sa chi sono. Attaccarlo. Ora. Una storia che sia degna di un pre-quel da film oscar, quella già ce l’hai, solo che senza alterego rischi di recitare il ruolo di attore non-protagonista. Quando inizi a chiederti cosa poter fare dopo aver già dato tutto: è in quel momento che definisci l’impossibile; le parole escono fluenti, disegnano idiomi dal profilo serio, che quasi non sembrano vibrati dalle tue labbra. E’ la dialettica del supereroe o almeno, a me piace definirla così . E’ la possibilità la corteccia celebrale che strappa la patina di oblio dal fare significativo di se, è l’immaginazione a crearla ed è la stessa a immaginazione a rendere il reale meno distorto di quello che è. Lo addolcisce, ne smussa gli spigoli, ne rinforza le armi fino a rendere i mostri e avversità insopportabili. L’intelligenza, crea tensione, fa si che l’immaginazione immagazzini dolore, angoscia, fino a collezionare ostacoli insormontabili e il fine unico è la soddisfazione che esiste nel superarli, nel sentirsi invincibile. Appendi vestito, maschera e mantello che se sei un supereroe non smetti di esserlo. Sempre, parola che sembra perdere di significato se rapportata ad un dialogo fermo, semplice e statico. Nei tuoi complessi riposano le risposte e nessuno può sostituirsi. La carne, le ossa, e la motivazione non parlano di superpoteri ma di identità, di un riconoscimento dello zero come valore aggiunto. Il supereroe è tale anche senza i suoi poteri e anche se stenti a crederci tu prova a chiederglielo quando ne vedi uno passare. E’ la consapevolezza del proprio valore a cucire gli abiti di chi di notte si traveste e va a salvare il mondo ed è lo scopo la sua arma migliore. E’ che devi tornare a desiderare di essere esattamente come sei, è che ti scontri ogni giorno con lo spettro di ciò che non vorresti essere, puntualmente scopri il fianco, con coerenza e determinazione rispondi; ma non basta. Smetterai e dovrai smettere solo il giorno in cui troverai ad aspettarti allo specchio della sera un’immagine nitida, integra ed efficace di te stesso. Di che cosa parla precisamente il travestimento di un supereroe se non di un uomo comune che non si riconosce, che non sopporta drammi che vive di emozioni, che si nutre del pericolo perchè conosce la soglia del dolore e del sogno che è poco più in la, dell’altruismo o della vendetta e della rabbia o della coscienza e della lotta ancestrale tra bene e male. Rileggi questa frase e dimmi se non ti trovi descritto o descritta se non hai stretto i pugni e il cuore non ti scoppia in petto dalla voglia di urlare. La descrizione ti corrisponde, la realtà coincide con l’immagine che hai di lei solo nel momento in cui capisci che vivono nell’ombra, tutti gli uomini e le donne che questo mondo lo possono cambiare.

Il muro degli ingrati

Piange sangue dolce, affranto e senza alcun rumore. Scalfito, fino allo scheletro ma ancora in piedi, nel vuoto maestoso del deserto del nulla. C’è un liquido, che sembra acido, che sa di vomito, che scorre ai piedi del muro degli ingrati. E facce sorridenti del colore della cenere, della stessa consistenza, piuttosto convincenti, disegnate sul muro degli ingrati. C’è uno specchio per le allodole, l’indice del vocabolario delle frasi fatte scritto a mano, sul muro degli ingrati. All’ombra, nel gelido nascondersi del sole, giacciono i cadaveri di chi credeva alle parole di coloro che penzolano dalla forca, che emette ancora gemiti, al cospetto del muro degli ingrati. Il rumore sordo, la caduta non crea scalpore, nel continuo prendere e non dare, nella perseveranza del bugiardo, nell’eterno lascito di chi pensa di vivere impunito. Si infrangono promesse sul muro degli ingrati, ci si sporcano le mani sul muro degli ingrati e non nascono più fiori e il credere alle crepe, che mostrano ferite che aride s’infettano e rischi di morire. Tira forte il vento sotto il muro degli ingrati e non è possibile ascoltare, sentire e si scortica la pelle e se sotto non c’è niente allora attacchi un post-it: “Ricordati il presente”. E voi che nomi avete scolpito sul muro degli ingrati?

 

 

Poi me ne convinco.

Oggi c’è un vento gelido quaggiù alla darsena. Il porto sembra congelato in una foto sbiadita dei primi anni ottanta. Un gabbiano scruta l’orizzonte dopo essersi posato sul piccolo faro color vermiglio usato come semaforo prima che i gps rendessero tutto meno romantico. Qualche onda si increspa sulla superficie altrimenti immobile, il reflusso del mare si abbatte dolcemente sulla battigia fino a sfiorarmi la punta delle scarpe. Sono un personaggio in bianco e nero, sfuggo al desiderio, dibatto con me stesso, rifletto profondamente mentre osservo  il sole levarsi a est. Disinfetto l’anima immergendo una mano in acqua dopo essermi seduto su uno scoglio che non ha ancora avuto il tempo di essere levigato dalla salsedine. Avevo intenzione di cadere ma sono rimasto in piedi a fare l’equilibrista e ora sono qua. Forse per gli altri è più semplice, ancorarsi a terra con la certezza di non volare via, di non graffiarsi mai, di non avvicinare mai così tanto il volto al suolo. Senza scivolare, senza pensare che il problema non è chi se ne va, ma chi rimane. La foschia confonde l’orizzonte ed ogni obbiettivo prefissato verrà rimandato a quando tutto potrà essere ricordato, nitido, pulito e dai contorni definiti. Ed è ogni volta che credo di aver raggiunto il traguardo che mi rendo conto di essere faccia a faccia con un nuovo inizio, che un’orizzonte nuovo rimpiazzerà quello appena visto. A camminare sugli scogli, a fare gli equilibristi, a vedere gli albatros volare e a non cadere mai. Col cuore in gola e a mani aperte cadere al suolo e il sangue a colare l’asfalto e tu fermo, a guardarlo. Ogni giorno una conquista, e muovo solo gli occhi, e vivo di paura, la tua migliore amica e adesso cadi e anzi no. Non più, ho una struttura solida, un archetipo importante fa parte delle mie fondamenta. La sensazione di camminare con il tormento di un sasso nella scarpa e se tutto intorno è dipinto in scala di grigi, l’azzurro dei riflessi dati dalla tua ombra è la compagnia perfetta per distrarsi. Con la punta del piede disegno cose senso senso sulla superficie bagnata della sabbia, quando il sole arriverà ad asciugarla tutto sarà reso illeggibile e non che abbia importanza è che vorrei il mio momento, essere in grado di godere di ogni secondo che passa, praticare consapevolezza, agire d’istinto e fare la cosa giusta. Sto attento a non scivolare ma vorrei che qualcosa accadesse, vorrei far sorridere qualcuno in modo da far sorridere me stesso. Solo la determinazione sarà in grado di trasformare le difficoltà in imprese dal profilo eroico, solo essa è in grado di farlo è che vorrei non affogasse nel mare di frasi fatti, di cose non dette, di tentativi mancati per trasformarsi in rimpianto. Non posso ricordarmi di quella volta che vidi il mare per la prima volta, posso peró immaginare il primo giorno d’estate e lo stesso stupore che provo ora, ogni volta che gli regalo uno sguardo. Succede, di tanto in tanto, di rendermi conto di essere vivo. Scoppio in lacrime, lacrime spontanee, silenziose e che in nessun modo riesco a trattenere. Nè di gioia nè di dolore, appartengono a quella spensieratezza che mi è stata portata via da ragazzo. Le lascio correre sul viso fino a toccare terra. Non fanno alcun rumore. Non ne parlo perchè non so spiegare, perchè è difficile spiegare come si vive nei panni di un “sopravvissuto”. Costantemente in balia del vento, nel limbo dell’incertezza, dell’insicurezza: è stato merito mio o sono stato fortunato? Poi me ne convinco. So bene che questa notte non chiuderó occhio, gli occhi lucidi bagneranno il cuscino mentre sorrideró nel vedermi bambino e stringeró i pugni come se tutto il dolore digerito in passato mi cogliesse ora. Succede quando mi rendo conto di essere vivo: Piango e credo di farlo perchè non ne ho mai gioito e avrei voglia di urlarlo e squarciarmi la gola perchè è questa l’unica cosa che davvero conta. Mi scorre tutto davanti agli occhi, non mi è permesso distrarmi, rivivo in una notte ogni ricordo che mi è stato concesso di portare in salvo. Tra sospiri, lacrime e singhiozzi c’è racchiuso il senso dell’esistenza, il resto non puó reclamare attenzioni: sono vivo ed è come se me ne rendessi conto solo ora. 

Quello che la musica. (Pt. 1)

No, non è il palco, è più quella puzza stantìa della sala ancora vuota. Non è nemmeno il pubblico è più il tuo sguardo una volta che la sala è piena. E’ quando rimani solo, quando si spengono le luci, sono le notti insonni, nel buio della tua stanza ad immaginarli. E se pensi per un attimo di essere qualcuno, beh, non è nemmeno quello visto che non saresti nessuno senza di loro. Sono le code in autostrada sotto il sole, il non trovare una posizione in cui dormire nel furgone, un panino diviso con chi, come te, fa parte di quel lato della vita in cui uno non nessuno guarda mai. Non sono gli incoraggiamenti ma i fantasmi messi a far la guardia ai tuoi sogni infranti da chi non ci credeva e non ci crede. Non è la T-shirt sul petto degli altri col tuo nome, è quella scolorita che ti porti addosso, che un pò sa di casa, tanto di te e del tuo sudore. Non è nemmeno la stanchezza e non sono i soldi che non hai mai preso, non sono nemmeno quei locali vuoti a farti innamorare. Sono più le ore al freddo, le parole giuste da trovare, le persone conosciute e il tuo primo stipendio andato a puttane. Non è il volume alto ma quel mondo che ti crea quando pensi di essere pazzo, quando tutti ti guardano storto, quando ti manca un passo per finir di sotto. Tu da solo, contro tutto il mondo. Non è nemmeno il tuo strumento ma il cammino che ti ha portato li, a vederlo, l’incertezza della scelta, i calli nelle mani, le occhiaie per lo studio e i compiti mai fatti. Non è un sogno realizzato ma sono quelli caduti in frantumi. Il collante che ti ha permesso di rimanere in piedi quando eri a pezzi. L’urlo tuo più forte, il credere in se stessi mentre i confini ti scorrono davanti. Sono le occasioni, i tuoi giorni migliori, le sconfitte, le vittorie, e le delusioni. Sono gli amici, gli amori, è l’opportunità per dire che ci sei, che puoi lasciare il segno, quell’istante in cui non torneresti indietro. Prendere a pugni il muro, il fiato sprecato la dignità racchiusa in chi racconta storie, ognuna a modo sua ma non per questo di un valore inferiore. Non sono le rinunce ma il motivo che ti spinge a farle, quelle tre a settimana, chiuso in un garage…chissà che ci sarà di bello? Cosa ci andiamo a fare. Forse avete ragione, si tratta di tempo sprecato è che lei mi sa ascoltare, si riferisce a me e quel garage diventa “il nastro adesivo che tiene insieme le nostre vite”. Siamo noi i suoi protagonisti e se pensi che sia romantica una vacanza al mare allora davvero non puoi capire che cazzo ci andiamo. Sputiamo il veleno, il lato sincero del nostro destino, mischiano gli ultimi coi primi massacriamo l’ambizione di essere uguali a tutti a colpi di rullante ed urli. Anestetizziamo il dolore, si calmano le acque sorridiamo immuni alla violenza atroce che altrimenti farebbe di noi qualcosa di banale. Scandiamo il tempo dei nostri giorni, una colonna sonora che no, non è adatta a tutti. Eè il coraggio di essere un manipolo si sbandati che viaggia contro vento con la speranza di cambiare il mondo ma se cambia me stesso, va bene lo stesso. Nessun download, nessun upload solo quel grigiore che scompare. La musica è la pausa, tra un respiro e l’altro.

Sui tuoi palmi.

E’ l’arte del fingere, ossimoro contrapposto al logorante talento che ansima in un clima senza tempo ma che non svanisce mai: Non essere creduti. Facile credere a chi mostra sofferenza seppur superficiale, ancora più facile è pensare che, chi soffre in silenzio, con grande dolore, stia fingendo. Al cospetto degli esami più duri che ci vengono sottoposti o a cui ci vogliamo sottoporre, dimentichiamo sempre il più importante: quello di coscienza. Capiremo, dopo un violento faccia a faccia con noi stessi ciò che di noi odiamo. L’imbarazzo racchiuso in alcuni “frame” dei ricordi che vi si pongono all’attenzione senza alcun filo logico con il presente che stiamo vivendo. In questo loop di immagini e di sensazioni, il credere in noi stessi potrebbe essere minato dalla vergogna. Un pugnale sfilato dalla guaina punta alla giugulare mostrandovi il paradosso: Vi siete trasformati nelle persone che non volete essere. Fatevi da parte voi, servi della logica, schiavi di vizi e di inutili comizi. Abbiamo scorte di energia da illuminare la corteccia cerebrale, da scorticare il muro del tempo per poter cambiare qualsiasi cosa abbia disatteso le nostre aspettative. Poi, arresi al passato appena trascorso, riusciremo a comprendere che sarebbe completamente inutile cambiare quel vissuto se prima non ne avessimo tratto alcun insegnamento. Saremo giudici e colpevoli, vittime e carnefici nello stesso scoccare di un applauso. Ma ci dobbiamo imporre di uccidere la confusione, il timore e prendere con forza il timone.  Prenderemo decisioni, pronunceremo manciate di “mai più” e faremo promesse che avranno la consistenza di zucchero a velo lasciato alla mercè del vento del cambiamento. Li cambierà qualcosa, quando il sangue di chi ami si posa sui tuoi palmi posandosi sulle tue orme. Non avremo più alcun indugio nel rompere il cerimoniale, nessun filtro e nessuna esitazione. Osserveremo dall’alto, conversando con l’autore, questa società liquida decantata sciogliersi all’inverosimile, fino a che il nostro sguardo riuscirà a congelare il momento, al momento giusto. Cammineremo ai limiti della vertigine sul cornicione che costeggia la nostra individualità. Vicino allo sbando non avremo più bisogno dei “vorrei” sostituiti da dei “voglio” pronunciati con un’intensità tale da risultare quasi sgradevole. Fissiamo obiettivi, ci concentriamo su di essi come orde di individui costretti a correre col paraocchi. Trovare l’equilibrio sarà fondamentale per far si che, di tutte le vite possibili, quella che stiamo vivendo sia la migliore. Concentrarsi sul percorso. Questa è la risposta, è questo che porterà alla crescita è questo che darà valore e risonanza alle nostre azioni. Il nostro modo di reagire determina chi siamo. Usiamo lacrime per detergere gli orizzonti ancora da conquistare, usiamo il coraggio per non dar più peso alle paure. Ancorato alla realtà, libero di arrendersi a qualsiasi fantasia, questo è il modo che vorrei per vivere il presente. Allena i muscoli del viso a sorridere che sembra semplice ma non lo è. Un nuovo punto di inizio, per amare e per trovare il coraggio di guardarsi i piedi, fermi da troppo tempo poi fare un passo avanti, come un nuovo inizio. Pronto ad essere la canzone che vorresti, l’inganno sono gli altri, tu sei il coraggio e se ti chiederanno di scegliere tra cadere e strisciare rimani in piedi, che lo sai fare. Quella tremenda voglia di non sentirti uguale, di essere letale, di fare innamorare e se ora non mi parli più, io lo capisco: Ti spaventano i miei drammi, li chiudo nei confronti, li poso sui tuoi anni così potrai capirmi e guardandoci negli occhi guarderemo avanti. Non mostro desiderio, mi nutro di certezze e se non mi spoglio non potrai vedere niente e a te sarà più semplice giudicarmi. Cattivo, giusto, leale, sincero, uno zaino di virtù a presenziare sul quel sentiero la cui destinazione non ha importanza. Sarà il sentiero stesso a modellare il respiro. Un nuovo inizio, un passo avanti che non deve dipendere da cosa fai ma da chi sei, che non deve dipendere da ció che mostri ma da quello che dimostri. È così bella la vita quando ti senti vivo, quando ti senti ancora vivo quando il respiro ti basta ad alzare lo sguardo e trovare il cielo, che se anche non lo guardi mai è li ad aspettarti.

Fare delle scelte radicali è difficile, è difficile perchè il più grande prezzo da pagare per sobrietà, lucidità, coerenza e sincerità è la solitudine. Se sarai disposto a pagare questo prezzo troverai un pezzo di libertà talmente inaspettata da lasciarti stordito e un coraggio che credevi sopito. Qualche tempo fa ho tracciato una linea ben definita, non delimita tempo o spazi ma valori chiari e imprenscindibili. Qualche scoria continua a darmi noia, troverò quella goccia di cinismo per rimanere completamente impermeabile. Soltanto la solitudine è in grado di specchiare ció che veramente sei e se questa immagine di te è quella che volevi allora di sentirsi soli e sempre fuori luogo è valsa la pena. Nella vastità di una finta armonia voglio essere la persona con cui non vorreste mai avere a che fare. Voglio essere la linea che ci divide per guardarmi intorno e non trovare nessuno. L’equilibrio che annienta lo stagnante brusio di chi si crede meglio. Eccomi qua quindi, sono il frutto della solitudine determinato a curarne i dettagli, senza più sentirmi solo.

Le sale d’attesa.

Le sale d’attesa rimbombano di taciti quesiti, respiri lasciati a galleggiare nel riflesso di una luce filtrata da persiane verde acqua, a volte grigio chiaro, a volte giallo sporco. Processi di vita in attesa di giudizio, sguardi lanciati nel vuoto in attesa di un appiglio. Qualcuno si affida a Dio, in una preghiera costante, un ringraziamento che gronda lamento, che giace nel silenzio, che prende forma in un soffio di voce. Qualcuno lo maledice, interroga feroce il suo intervento come a crederci davvero, come un frenetico star calmo nello sforzo immane di mantenere lucido se stesso. Voglio uscire. Andarmene. Non posso. Lotto con immagini del passato, mi getto tra le braccia della speranza, mi siedo e mi alzo di nuovo, qualche passo lento e a mani in tasca. Poi mi siedo. Getto la schiena sulla sedia, novanta gradi perfetti rispetto alla seduta. Poggio le mani sulle ginocchia, i polpastrelli tengono un ritmo irregolare sulle rotule. Parlo con il mio respiro, come fosse appena nato, gli do delle regole, incanalo la rabbia, puntello l’ansia pensando al ritorno. Chiudo lievemente gli occhi, butto indietro la testa ritrovando così la mia dignità. Voglio uscire. Andarmene. Non posso. L’attesa divora la sicurezza che ho, la convinzione di credere in me stesso. Quando l’esistenza é legata a una risposta il tempo si ferma, non esiste altro. Potresti volare o precipitare e la probabilità, anch’essa, galleggia rarefatta in una bolla di aria calda. Finché non arriva la sentenza é come correre sul filo del rasoio, a piedi nudi. Un lento sanguinare che necessita di un buon disinfettante e punti di sutura. E non ci si abitua, e non é una scelta, e non é che fa il cazzo che ti pare. No. Devi stare lì, parare i colpi, trattenere il respiro, dosare i gesti, mai naturali. Voglio uscire. Andarmene. Non posso. Voci metalliche che chiamano numeri che aspettano un volto, un corpo, un’anima. Sai quando tutto ti cade dalle mani? Come a volersi far carico di troppe cose. La differenza sta nell’equilibrio, chi ne è ha di più vince anche se spesso ci si accontenta di averlo e basta. Quando lo perdi é finita. Casca il primo pensiero, ci metti una pezza, ma scopri un lato di te più fragile del previsto, altri due pensieri piovono a terra fino a quando tra le tue braccia non potrai far altro che trovare un vuoto. Emorragia in atto, un sorriso ai soccorritori. Un’ombra si affaccia sul tuo sguardo mentre il sole picchia sul pavimento di plastica della sala d’aspetto. Una clessidra si rompe, la sabbia si sparge, il vetro disegna scintille. Intanto i tuoi pensieri più preziosi, quelli che giacciono al sole, vivono incuranti della pioggia. Che traffico nel cuore, che calore scorre nel ventre, che male che fa là, là dove sgorgano i sogni. Il tempo scorre lento, un goccia al secondo e ti vedi riverso a terra, col vomito in gola, con la bile sul colletto del pigiama. Voglio uscire. Andarmene. Non posso. Quante promesse fai a te stesso in quegli istanti, quanto avresti bisogno di un abbraccio che non arriverà mai perché li, sì proprio lì, ci devi stare solo, perché potranno tenerti le mani, intrecciare le dita e stringerti forte, ma nessuno potrà sottrarti al tuo dovere. Il tempo non passa e il rispetto che hai del dolore aumenta con lo scorrere dei secondi e il rispetto che hai della potenza della tua mente é inversamente proporzionale alla tua capacità di controllarla. Nelle sale d’attesa è sempre troppo freddo o é sempre troppo caldo. Il tempo non passa. Il tempo non passa. Non passa. Tutt’intorno si fa a scambio di vite, si fa la conta dei danni, orgogliosi nell’essere compatiti, nel sentirsi i più colpiti dalla sorte. Come reduci di guerra ci si racconta le battaglie. Con orgoglio si mostrano le ferite. Meno di 25 punti di sutura addosso sei un Rookie, un pivello, una matricola. É una raccolta punti e il premio é la sensibilità acquisita, un punto di vista differente sincero, tragico, reale. La vita mostra il suo vero volto nelle sale d’attesa di un mondo, che costretto a nascondere i desideri nei cassetti dell’ikea, dovrà poi ricostruirseli in serie ma senza istruzioni di montaggio. Conati di stanchezza uccidono la brillantezza di cui mi tingo prima di partire. Non voglio andarci ma devo. Non voglio restarci ma devo e forse voglio perché ho bisogno di sentirmi dire che va tutto bene. Per qualche tremante “mi dispiace” mi si annacquano gli occhi. Ma che senso ha, ditemi voi, fare a scambio di paure? Mi chiudo in me stesso, talmente tanto che ne rimango fuori, che non mi riconosco e mi immagino forte e in grado di controllare ogni reazione. Fisso un soffitto che non può darmi risposte e ho paura. Si cazzo, ne ho molta, mi scappa la pipì, provo a farla ma non esce. Questa é la paura fottuta che la vita venga di nuovo stravolta, che tutto ti venga portato via di nuovo, che qualcuno possa soffrire ancora per te, che tutto ciò per cui ha lottato venga calpestato dal destino o dal fato. Non é la sala d’attesa il posto in cui convincersi di qualcosa. La paura va sconfitta, affrontata ma porco Giuda quando arriva il dottore? Non voglio starmene qua, ho qualcosa di meglio da fare, il libro della mia vita ha ancora troppe pagine bianche che aspettano mirabolanti avventure che possano trovare inchiostro e prendere vita. Le sale d’attesa. Un brusìo continuo, qualche colpo di tosse. I signori anziani trovano gli ultimi sussulti di vigore nel tentativo di passarti avanti. Non vogliono privarsi di quel tempo che come grasso in eccesso cola dalle loro vite. I più simpatici silenziosi sorridono. Gli altri coi segni della vita addosso sbuffano. Le signore del quartiere, invece, composte e gentili, parlano tra loro. Si prendono cura dei mariti e fanno la conta dei loro acciacchi mentre si lamentano del ritardo del dottore. Ti accorgi di come la differenza tra vivere e sopravvivere rimane intrappolata nella scelta di come trascorrere il tuo tempo. Posso farcela, devo farcela. Dignità, sobrietà, denti stretti, pugni in tasca. Hanno spostato il reparto di nefrologia e dialisi. Spostato i letti, gli armadi, le poltrone, le macchine, i tubi. Hanno spostato gli sguardi, le attese, le abitudini. Hanno traslocato in un angolo del padiglione “A”. L’entrata è su un lato dell’ospedale in cui proprio non vai. Hanno spostato il modo di intendere la vita, hanno spostato qualche certezza, creato qualche disagio e posteggiato malati altrove. Mi raccolgo tra le spalle, l’umidità urta le ossa. Trovo l’ingresso, chiedo un’informazione, mi siedo. La sala d’attesa è in comune. In comune con un altro reparto. Non si ha nemmeno una sala d’attesa in cui condividere lo stesso problema. Poso le analisi su un tavolino rotto, un’occhiata veloce a qualche libro posato su una piccola libreria, la macchinetta automatica del caffè e il distributore di merendine. Tolgo il parka, mi siedo. Attendo, come tante altre volte ho fatto in vita mia. Succede che dal polo endoscopico esce un dottore, vestito di verde, gli occhiali sottili. Cala la mascherina, sussurra un cognome. Si alza una signora anziana, il suo vissuto lo raccontano le rughe e le mani rovinate dall’usura. “Si, suo marito…è un tumore”. Con eleganza, un sospiro e una dignità tale, la signore siede. Nel silenzio è possibile sentire il rumore di una lacrima che sgorga da quegli occhi stanchi. Mi si stringe il cuore, vorrei poterla abbracciare. Di li a poco entra un un piccolo uomo, il suo maglione rosso si stringe alla sua signora. Attendono il ricovero mentre si guardano negli occhi e si stringono la mano. Sorrido, i miei occhi si fanno lucidi. E’ il mio turno in nefrologia, raccolgo le mie cose. Quanto tempo e fiato sprechiamo, ogni giorno in questa vita. Cerchiamo esempi di amore sui rotocalchi, cerchiamo di sfuggire alla morte con elisir di lunga vita ma non impariamo mai niente mentre nelle sale d’attesa delle nostre periferie la vita si mostra nella sua più crudele e spietata recita, nella sua più convincente prova d’amore…”Andrà tutto bene” e chi se ne frega se non sarà così finchè avremo ancora voglia di guardarci negli occhi e tenerci per mano?

É il mio turno, tocca a me, hanno chiamato il mio numero. Sarò un numero bellissimo.

 

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Souvenir D’Amburgo.

Ho acquistato un piccolo carillon, qualche mese fa, in un’anonima area di servizio vicino ad Amburgo, in Germania. Sta sul palmo di una mano ed è fatto di metallo, un metallo chiaro. Non è nascosto, chiuso o racchiuso in nessuna scatola, nessuna ballerina ci danza sopra. E’ nudo, forse sente freddo. Metallo e viti e un nastro che prende vita ogni volta che, impugnando una piccola leva a forma di “L”, la si fa girare. Vibra e riscalda la sua voce. Non posso nascondere in alcun modo il suo brutto aspetto, nemmeno usando la vena poetica più ricca di elogi e virtù potrei donargli bellezza. Poi lo appoggio al legno, qualsiasi legno, stringo la piccola leva tra pollice e indice e mi accorgo che solo con movimenti aggraziati otterrò qualcosa da quel buffo ammasso di ferraglia. Poi lo appoggio al legno, qualsiasi tipo di legno, stringo la piccola leva tra pollice e indice e inizio a girarla, delicatamente, con una cadenza ottocentesca. Si sprigionano melodie di malinconia estrema, di un sentirsi a casa, di un sentirsi tristi, di un sentirsi bene, di un sentirsi soli , di un sentirsi ancora in grado di ascoltare, di isolarsi, di chiudere gli occhi e godere di tutto quello che ciò che appare brutto scatena sulla faccia. Tu specchiati allo schermo e fatti riconoscere per quello che sei. Sei sul precipizio, nel limiti del pianto, nel limite del sorriso. Il carillon continua la sua lena, un trascorrere sugli occhi chiusi di storie, di come poteva andare, di bei ricordi decorati a sputi e cerbottane, da brividi e puttane, da sogni spezzati troppo in fretta e sostituiti da altri a cui devi ancora pensare e tu dillo al mare, mentre il carillon suona, servirà a farti addormentare e a non farti più del male e a trovare un finale di stagione che non può essere banale. Me ne stavo li ad Amburgo, un porto mercantile sempre freddo, dal colore della nebbia e quel rosso della ruggine sui mercantili e le travi e le piattaforme e stringevo nella mano quell’aggeggio strano, dal suono del silenzio, sulla pelle nuda mi faceva freddo ma mi dava alito e rifugio come quando lei ti presta la sua sciarpa, docile, profumata. Mentre tiri dentro al petto boccate di cherosene e cristalli del Mar Del Nord, mentre il cielo è pervinca, mentre si sfida tra le navi la ferraglia di una classe di perdenti. L’ho acquistato per averlo e non per possederlo e nemmeno per scherzo o per regalo, era ed è per me e lo tengo qui davanti mentre scrivo, nei giorni di burrasca me ne ricordo a stento anche se è freddo è vivo, anche se si muove lento e non è bello. Ha un eleganza sua che se chiudi gli occhi poi li riapri a stento.

Valgo molto più di questo.

Valgo molto più di questo ma come lo dimostro? Posso impegnarmi, leggere libri sullo spirito giusto da adottare nel caso in cui tutto vada nel modo sbagliato, posso arrivare a pregare il futuro affinchè mi tenga stretto al suo cordone ombelicale ma fino in fondo, come lo dimostro? Quante volte ho provato a spiegare la noncuranza del prossimo, la sottile belligeranza dell’incredulità della persona priva di problemi reali. Lamenti lanciati a manciate ogni volta in cui uno sforza è richiesto. Il minimo indispensabile è persino troppo per chi non ha d’abitudine l’ingegno di tirarsi fuori dai guai. E tu oggi vedi azzurro, e senti caldo e fra qualche istante vedrai verde e avrai freddo ma rimarrai sincero, e basterà un velo a renderti immortale o a sentirti tale. Tra lo stare molto male e lo stare molto bene il tuo passo è breve e questo inganno il superbo ardore di chi si fa sopraffare dal giudizio. Avete mai fatto i conti con l’impotenza del non poter dimostrare di poter far parte di quell’élite di persone straordinarie? Il limite invalicabile del normale violato ad ogni risveglio, le risposta tritate tra i denti per il tempo perso alle quali corrisponderebbe solo il pensiero tolto. Viene strappata via la possibilità di mostrare chi si è davvero e nonostante questo essere pronti a farlo, essere chiamati a farlo. Dignità, versata come un lento e rigoglioso fiume di sangue. L’inerme andarsene di un vostro caro e la possibilità di assistere. Esiste una più crudele punizione ad un errore non commesso? “Finchè si trovano le vene si va avanti”. Come un tossico, perchè drogarsi dell’ambizione di poter confondersi tra i tanti è uno spettro. Valgo molto più di una bugia, di un rimprovero lasciato in aria, di una parola di conforto o di un’ecografia dall’esito positivo. Valgo molto più della paura di deludere, dell’assenza e dell’abitudine. Valgo molto più d’un soffio, di una goccia, o di un ricordo, valgo molto più di un tuffo. Valgo molto più di un “ciao” dimenticato sul palato e valgo molto più dell’essere dimenticato. Ci si specchia troppo spesso nelle opinioni degli altri. Uno specchio deformante, assillante. Ad ogni sconfitta la stessa risposta: Valgo molto più di questo, ma come lo dimostro? Come cazzo lo dimostro? Dimostrarlo. Cosa sana, cosa doverosa solo se l’istinto che ci porta a questo ci porta a fare i conti con noi stessi e non per condire il grido di chi ti deride. A loro non devi niente. L’ambizione è tua, curala, tienila cara e dimostrati pronto a capace. Ed è così che mi sento. Vorrei ogni giorno poter andare a lavorare, nel pieno delle mie forze, lucido e con le pareti della mia carne splendenti. L’opaco delle medicine cadere dai miei occhi, la lentezza dei miei passi lasciare spazio ad un respiro pieno e potente. Lo vorrei ma tutto è stato compresso e nell’istante stesso in cui mi sentirò arreso, mi sentirò sconfitto ma è in tutt’altro modo che affronto il futuro. Mi accontento di una briciola di sole, ne farò la mia estate. E’ davvero strano, persino buffo vedere in voi l’affanno nell’accumular certezze, ricchezze, pregi e dar giudizi, piacere agli altri senza lasciare indizi o macchie. Vi indaffarate tanto dimostrando ad ogni passo il vostro stento. Vi trascinate, nel pieno degli schemi e io qua che ad avere le vostre possibilità solleverei il mondo. Chiamate a voi fortune che non vi rendete conto avere e piangete grazie a cui è sempre possibile aver rimedio, al massimo un cerotto o un bicchiere per lenir la sete. Quale scusa vi racconterete? Il vostro valore, voi che potete, come lo dimostrare? sfruttando le occasioni o sfuggendo a tali? Il valore umano corrisponde al peso di un cuore esausto, saràà per questo che chi è considerato meno è chi non ha più fiato. La differenza tra un non voglio e un non posso,a volte, è solo lo spazio di un rossore in volto. Saperlo interpretare è una questione umana, una risorsa sempre rara. Valgo molto più di questo e anche se non oggi, lascerò, ne sono certo, il segno.

Storytelling.

Gab racconta storie e sono simili alle mie. Come quando quella volta in mezzo a quell’incrocio confuso in cui era facile cadere ha scelto un piccolo sentiero, tutto da esplorare. Non si è più guardato indietro, niente più autostrade. Ha scelto la via giusta senza farsi dei problemi: Facile o difficile, era quello che voleva, e io lo seguo a ruota, perchè inizio a capire che davvero non conta nulla portare del rancore. Lo lascio li all’ingresso, alle porte del progresso e non mi sento solo anche se non siamo in cento. Abbiamo facce stanche quando scatta la magia e sembra tutto un film in cui curiamo la regìa. C’è un tappeto di pensieri, di confronti, di un’empatia sincera, quella di una mano stretta e del calore della sera. Mi siedo, il tempo mi concede tregua, anche lui se ne sta fuori, l’aria tagliente lo gela e mi sento, finalmente, sprofondare in una notte cauta, tranquilla, che non ha bisogno del mio pensare. Continuo, assillante, opprimente pensare. Ho messo l’alba a far da guardia ai miei doveri, questa notte è mia e me la dedico di getto. Gab racconta storie, sembra sfogliare il manuale di come farmi emozionare. Sembra leggere il mio libro. Attinge dal fiume del mio pensiero scritto: “Amico hai ragione, questo lo pensavo proprio ieri”. Mi sono visto dentro ai cerchi, il calore dilatato, il rumore ovattato e dopo tanto tempo ho trovato calma, coraggio e voglia di conoscere chi ancora come me si circonda di quello che vuole davvero fare, senza compromessi, senza scommettere in giornate andate male. La cura di noi stessi passa per il sorriso altrui. Scaturisce una reazione, senza filtro, che cola dal soffitto, veloce come l’istante infinito trascorso ad aspettare l’ultima goccia di melassa che ridà dolcezza all’amaro in bocca lasciato dal rospo appena ingoiato. Gab racconta storie di esplicito contegno, un lucido sguardo sul momento. Quello che rimane è una riflessione sospesa nell’aria, pronta ad essere salvata. Pensiamo al futuro a tutto ciò che andrebbe fatto meglio, che si può cambiare arrivando alla conclusione che è inutile guardare, che è li la soluzione se alzarci oppure no è una nostra decisione. Uno dei miei più bei concerti non eravamo molti ma eravamo attenti, importanti e li, fermo in prima fila mi son sentito come una corda vuota. Vibra e da sostegno, arriva fino al petto, a volte da coraggio e se stona nel contesto è perchè è perfetto. Nei tempi, nei modi, gentile e dignitoso, è il calore umano ma non lo riconosciamo. Un’abitudine persa a cui rendicontiamo anni di inesperienza. Gab racconta storie, alcune le faccio mie, ne mastico l’odore, e le rivolgo altrove e se la speranza è l’ultima a morire mi auguro, un giorno, di essere tra queste. Che possa esser tra le righe di uno dei suoi viaggi che i cantastorie vivono per sempre, le parole che hanno dentro riempiono gli spazi, protagonisti incerti di tramonti e nuovi inizi.

Ho Voglia di vincere.

Sono Simone e sono morto tre volte. Non sono mai stato in vantaggio sulla vita, l’ho sempre riconcorsa, come una bellissima amante, con il sarcasmo e la concretezza di chi sa di dover perdere. Poi l’ho imparato che nella vita una sconfitta dignitosa scolpisce la gloria più di ogni vittoria custodita in albi d’oro buoni a raccogliere polvere sugli scaffali. Ho stretto mani che non ho più rivisto e ho visto scorrere sangue fuori da vene non mie, il mio sangue, in vene non mie, fatte di plastica. Si arrossavano garze, lenzuola, tessuti e cotone. Continuavo a chiudere gli occhi finchè non ho avuto paura di svegliarmi. Coperto di quel verde intenso, quel verde su cui acqua e sangue si confondono. Sono morto tre volte ma di vite mi sembra di averne vissute cento. Una al giorno, una al mese mentre il silenzio trovava domicilio nella profondità di notti insonni perchè se non ti addormenti mai, non rischi di morire. Forse. Mi spoglio, sfioro la pelle, sento battere il cuore e scorro due dita sulle cicatrici. Disegnano dei Picasso sulla tela del mio addome, del mio braccio, del mio volto, del mio dentro. Vedo stelle cadenti, colpi di pistola, vedo fori d’entrata e nessuno d’uscita. Capisco che qualcosa rimane dentro e in superficie lascia il segno. Si gonfiano gli occhi davanti a tramonti non visti, davanti ai treni persi, di fronte a sfide che sei costretto ad affrontare e arrivi secondo e già lo sai e allora cosa giochi a fare? Decido di partecipare perchè, sono Simone, sono morto tre volte e ho voglia di vincere, di tentare, di dimostrare. Accumulo argento in casseforti d’oro, davanti a facce di bronzo. Ho visto delle crepe, tra cenere e polmoni ma nel momento in cui ho deciso di calcificarle ho pensato che di luce ne filtrasse abbastanza per darmi ancora quel barlume di speranza. Si insinua un panorama che vorrei incorniciare per essere ricordato come il vecchio e il mare. Vorrei provare più spesso quella sensazione che ti solleva, lo stessa sensazione di avercela fatta che provi ascoltando una tua canzone. Hai brividi e hai il sole e hai i nervi a fior di pelle perchè tutto quello che vorresti fare è non pensare a ieri e nemmeno a domani, solo ad oggi a ‘sto momento e al bello di respirare, un secondo dopo l’altro, fino quando non sarà ora di salutare. Sono Simone e sono morto tre volte, mai per colpa mia, piango delicatamente, solo qualche istante, dignitosamente, a cospetto del mare, di un respiro fatto a scale, di un’ombra che mi assale, di un sorriso regalato o di un boccone masticato, che sia dolce o sia salato. Mi voglio veder protagonista e che il mio sfondo sia teatro di vittorie o sconfitte, non importa: Conta la dignità e non aver pesi in cielo per non abbassare mai la testa. Le spalle a una ripresa, mi ritrae di fronte al mare, un tramonto inaspettato che abbasso un pò la testa stringo forte la caviglia e sono pronto a ripartire. E non esiste errore, esiste ciò che imparo e inizio a navigare e steso alla penombra di un cielo terso guardo le nuvole passare e provo a dargli un nome curiosando tra le insidie di un futuro da esplorare. Sconfitto è colui che non ci prova e io sul petto, sul collo e sparse per il corpo ho medaglie tatuate senza inchiostro, me ne lamento spesso ma non me le tolgo. Voglio perdere il respiro per capire quanto vale per capire quanto è intensa la strada per andarlo a cercare. Sono Simone, sono morto tre volte e per me, un semplice “a domani” non è così scontato. E’ bello, è brutto, non so come definirlo, quello che so è che mi fa stare concentrato, su ciò che è giusto, su ciò che è sbagliato. Ogni battaglia tua è anche la mia e la perdita di tempo è un fattore che mi annoia. Ho acquisito il diritto di rivincita, da rivendicare in quale altra parte di vita, di mondo o di universo non si sa. Ho voglia di vincere, uno a zero mi basta, soffrendo va bene ma fatemi esultare, fino a perdere la testa, di tutto il resto non mi importa. Merito di meglio, lasciatemelo dire, non voglio accontentarmi di ciò che posso fare. Ho sopportato, sono caduto, mi sono fatto male, ho urlato pianto di dolore, aggrappato a spacchi scivolosi e mi son sentito annegare, cosa cazzo vuoi che mi ne freghi di tutto ciò che non mi fa stare bene? Succhio ossigeno alla morte da quando sono nato, cosa dovrebbe spaventarmi e di cosa dovrei sentirmi in colpa se nel cuore della notte mi sveglio ad accendere la luce per potermi spaventare? Sono Simone, sono nato due volte, morto tre, sopravvissuto e sprazzi, mi spetta ancora una vita per giocarne altrettanto, questa volta ad armi pari. Sono Simone, sono nato due volte, morto tre, sopravvissuto e sprazzi e ho voglia di vincere, ancora da solo, contro tutti gli altri.